diUmberto Motto
Umberto Motto è stato calciatore e poi dirigente del club granata,ma anche un grande imprenditore che ora racconta la sua vita a partire da quel giorno felice con il suo papà
La prima volta al Filadelfia avevo quattro anni. Ricordo solo che era novembre e faceva un freddo terribile. Normale per quell’epoca che non conosceva ancora il climate change. Spesso a Torino il giorno dei Santi coincideva con la prima nevicata. Mio padre, la domenica, si alzava presto, prendeva un mattone e lo infilava nel forno. Quando era ben caldo, lo avvolgeva dentro una pezza e lo portava allo stadio. Poi lo posava sui gradoni gelidi e mi faceva mettere i piedi sopra. Ero troppo piccolo per sapere contro chi giocava il Toro. So solo che ci andavo tutte le settimane ed ero strafelice.
Quando ero un po’ più grandicello, aspettavo con ansia quel momento. Una domenica mio padre mi disse che mi avrebbe portato al parco. Ci restai male. Lo sapeva che ci tenevo a vedere il Torino. E poi era tutta colpa sua. Mi aveva inoculato la «malattia» granata.Piuttosto che il parco, avrei preferito restare a casa. I soldatini o il trenino mille volte meglio di quell’insulsa passeggiata nel verde. Con il rischio di incappare negli amici di papà o, peggio, nelle loro mogli. Quelle che scompigliavano i capelli. Ci ho sempre tenuto ad averli in ordine, molto prima di potermi permettere la brillantina. Dovevo tenere la testa a posto per nascondere la mia anima da ribelle. Mio padre lo intuiva. Per questo a casa si pasteggiava a regole e disciplina. Senza neanche la sponda di mia mamma.

Grazie al cielo il mio genitore mi piaceva. L’avrei rispettato e gli avrei obbedito comunque. Poteva andarmi molto peggio. Era un uomo rigido. Potrei dire d’altri tempi, se non fossero stati proprio quelli. Incarnava il senso del dovere nello sguardo severo. Devo ammettere che alla lunga lo devo ringraziare per quello che sono diventato. Non prendetemi per presuntuoso. Avere una bussola, un punto di riferimento mi ha evitato le sbandate che potevano farmi finire fuori strada. E lo sa il Cielo quante ne ho schivate!
Il Filadelfia era un sogno. Anche solo a guardarlo da fuori. Aveva quell’aria da stadio inglese. L’aveva voluto un grande presidente del Toro: il conte Cinzano. Un gioiello di eleganza e sobrietà. Ma incuteva anche rispetto. Persino paura. Lo vedevo negli occhi dei giocatori avversari. Sbucavano dagli spogliatoi con la testa bassa. Si stiravano le gambe e provavano qualche corsetta per saggiare il terreno. Più che ginnastica di riscaldamento era nervosismo bello e buono. Non uno che alzasse gli occhi. Un muro granata li guardava come predestinati alla sconfitta.
Dire che vidi la partita sarebbe una bugia. La sentii come fossi dentro una radio. Ero troppo piccolo e c’erano troppe persone intorno a me. Arrivavo sì e no alle tasche delle loro giacche. Ricordo i cappotti pesanti, gli applausi attutiti dai guanti. Dalle bocche uscivano incitamenti e fumo. Volevo prendere la mano di mio padre ma mi vergognavo. Allora ascoltai in silenzio. Mi arrivava il suono del tocco del pallone. Bello, intenso, pieno, quando erano i nostri a calciare. Sghembo, stonato, sgradevole, se la palla finiva agli avversari. Ma forse stavo già diventando tifoso e non del tutto obiettivo. So solo che vincemmo. Ultimamente accadeva spesso. E pensare che il Toro fino a quel momento aveva vinto solo uno scudetto. Nel 1927-28, e uno revocato. E su questo si è detto e scritto tanto. Non ero ancora nato, ma dalle testimonianze che ho raccolto mi sono fatto l’idea che fu una vera ingiustizia. L’ennesima nei confronti della nostra squadra. Il prezzo da pagare per chi si è sempre schierato dalla parte della trasparenza e dei valori. Quelli che lo sport dovrebbe sempre incarnare e oggi vedo sbiaditi.
Lo so, qualcuno mi accuserà di retorica, di passatismo. La mia risposta è nei tanti ragazzi che hanno vestito la maglia del Toro e tutti hanno riferito che era una cosa mai provata con nessun’altra squadra. Un motivo ci sarà. E non sono le vittorie. Che contano, ma fino a un certo punto. Per dire, i rivali cittadini della Juve vinsero cinque scudetti solo negli anni Trenta. Uno dietro l’altro.
Eppure, la città era granata. Non so spiegare il perché. So solo che il granata te lo sentivi incollato addosso e per le strade e dentro le case si tifava in una sola direzione. Il Toro ci apparteneva, era più di una squadra di calcio.Tornammo a casa camminando accanto. Mio padre non parlò. Io non osavo interferire con i suoi pensieri. Chissà se gli stavano passando in mente gli episodi della partita o se era già con la testa sul lavoro dell’indomani. Però intravidi un sorriso tra le labbra increspate.Erano le piccole soddisfazioni di un uomo che dedicava tutta la settimana a sgobbare. Sì, perché lui non era di quei padroni che arrivano, si chiudono in ufficio e incontrano i clienti. Lui passava il tempo con gli operai. Senza che gli mancassero di rispetto. Era socievole ma guai a prendersi confidenze. Sapeva tutto dei suoi dipendenti. Capiva che doveva a loro il suo benessere. Ma pretendeva anche serietà assoluta. Il calcio diventava un piacevole diversivo. Neanche uno svago o un divertimento. Perché anche lì ce la metteva tutta. Per questo si impegnò come dirigente del club. E dai giocatori si aspettava la stessa professionalità dei suoi dipendenti. Non sbagliò. Fu sempre ricambiato.
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10 ottobre 2024
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